ROMA _ 10 giugno 1940, lunedì. E’ un giorno di sole caldo che regala 31 gradi a Milano e 26 a Roma. Molti milanesi hanno l’aria soddisfatta: il campionato di calcio si è appena concluso con la vittoria dell’Ambrosiana Inter, dopo un infuocato duello con il Bologna. Sui giornali italiani c’è la foto di un ragazzo: è il ventenne Fausto Coppi; ha vinto il Giro d’Italia, ma fra qualche settimana partirà come soldato.Il 10 giugno di Benito Mussolini comincia invece davanti allo specchio, in camera da letto. Come si veste uno che sta per dichiarare guerra a mezza Europa, e chiama a scendere in campo “otto milioni di baionette”?
Un cenno di fastidio, la pancia è poco fascista! Sceglierà poi l’uniforme di caporale d’onore della milizia, con una sahariana vistosa e pesante. Il discorso è a punto. Lo ha maturato per giorni nella sobria intimità dello studio dove da anni vive in compagnia della propria solitudine.
Alle 15 gli altoparlanti Marelli agli angoli delle piazze emettono le prime voci di prova. Poi l’appello all’adunata, che scuote anche la solita Roma svogliata: «Stasera, alle ore 18, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini parlerà al popolo italiano». Dopo le 16 la folla comincia a radunarsi nella piazza, con un colpo d’occhio d’eccezione, una scenografia cesarea, esaltante per un “animale da comizio” come il duce. Mai il figlio del fabbro di Predappio ha respirato così a pieni polmoni il proprio potere.
Alle 18 appena passate la vetrata si apre puntuale e il duce si staglia sul balcone come un prete sulla neve, mani appoggiate al davanzale, labbro inferiore sporgente, occhi pronti a roteare. Scende un silenzio teso. La voce metallica, da predatore dell’arca britannica, esordisce scandendo la prima parola: «Combattenti…di terra, di mare, dell’aria…Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria…l’ora delle decisioni irrevocabili…La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia». L’urlo è incontenibile e prolungato. I giochi sono fatti. Il dado è tratto su quel balcone di pietra e non ammette rimorsi, rancori, rimpianti.
“La parola d’ordine è una sola…vincere…e vinceremo”. Gli applausi si fanno fragorosi ma non travolgenti. Più che entusiasmo pare un lungo, sordo clamore. Un annuncio di guerra è anche un annuncio di angoscia. Mussolini si ritira, si riaffaccia. Ha il sorriso compiaciuto del vincente, non sa di essere già un idolo perduto. Gli ultimi applausi e la gente sfolla ordinata, senza sussulti. La tensione cade e dentro sale una punta di tristezza. Nell’aria preme un’inconscia malinconia. Commenta Galeazzo Ciano: «Sono triste, molto triste. Che Dio assista l’Italia». Il 10 giugno, l’ «ora segnata dal destino»: l’euforia di oggi sarà la disperazione di domani. La piccola Italia, gettata nella fornace europea, si ritroverà fra i vinti. L’avventura di Mussolini finirà cinque anni dopo a Piazzale Loreto.
Marco Innocenti | Il Sole 24Ore